di Enzo Baruffaldi
«Stavamo comunicando con mezzi normali, ma lo stavamo facendo alla nostra maniera, schivando le normali forme di comunicazione che sono tipiche della cultura in cui siamo cresciuti – come la televisione commerciale e le Top 40. Quelle forme di comunicazione hanno a che fare con il consumo, e questo è molto opprimente. Noi non stavamo consumando, noi stavamo creando. E questa è una dichiarazione politica, in questa epoca».
Sono parole di Calvin Johnson, fondatore della K Records e degli storici Beat Happening, giusto per citare un paio di nomi. Parto da qui, perché oggi pomeriggio ho riascoltato gli Halo Benders (il fantastico side-project che Johnson portò avanti insieme a Doug Martsch dei Built to Spill nella seconda metà dei Novanta) e mi è capitato di scoprire una loro cover del 1994 di “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want” degli Smiths. Non l’avevo mai sentita, non ne sapevo nulla e mi ha del tutto spiazzato. Una versione ruvida, scarna e sporca come gli Smiths non sono mai stati, distante dall’originale quanto Olympia da Manchester, ma in fondo sincera, autentica e potente quanto l’originale.
Mi ha ricordato quante meraviglie l’indiepop riesce ancora a rivelare, nel 2020, mille anni dopo i Beat Happening, gli Smiths, le fanzine fotocopiate e i flexi-disc. E ho pensato a cosa è rimasto di questa parola, “indiepop”, nel 2020, e a tutto il valore che sembra avere perso. Perché indiepop, per qualcuno, sembra diventato sinonimo di musica debole, di sfiga e disimpegno? È forse colpa della sfumatura pastello che ha sempre aleggiato intorno all’ambiguo significato di “twee”? È forse colpa del pregiudizio che quelli fossero anni più semplici e ingenui? È forse colpa dei suoni più contemporanei e sintetici che, com’è giusto che sia, costituiscono e riempiono l’orizzonte attuale, così consapevole del suo essere tutto marketing e pragmatismo?
Quello che forse dimentichiamo è che anche ciò che oggi chiamiamo indiepop nasce come rottura e reazione, pur restando tutto all’interno dell’etica Do It Yourself. Reazione al conformismo che aveva affievolito una certa spinta iniziale punk, reazione al gretto machismo che da sempre incombe su gran parte della scena musicale (stampa compresa), reazione alla meschinità del capitalismo capace di narcotizzare ogni spinta artistica. A proposito di quest’ultimo aspetto, Geoff Travis, fondatore della Rough Trade, ha sintetizzato con molta franchezza lo spirito con cui si è ritrovato a lavorare nella musica: «La nostra motivazione è stata davvero quella di prendere il controllo del nostro destino creando i nostri dischi. Si trattava di non essere interessati a far parte del sistema esistente, ma di continuare a creare la tua arte». La storia che racconta Richard King dentro “How Soon Is Now?”, un ricco saggio che percorre trent’anni di mercato indipendente britannico, è anche la storia di una costante opposizione alle scelte più scontate, all’ipocrisia che ci viene imposta, alle prese di posizione più prevedibili e attese.
Perché questa musica, che per alcuni è così perbene e innocua, non è nata per essere perbene e innocua. C’era consapevole ribellione nello scegliere, per esempio, chitarre scintillanti alla Byrds, invece di adeguarsi a suoni da classifica. C’era consapevole ribellione nell’appropriarsi di fluidi ritmi disco e Motown, come fecero gli elegantissimi Orange Juice, e proporli agli indie kids (che all’epoca chiamavano “cuties”). C’era consapevole ribellione nel decidere di non usare immagini femminili stereotipate nelle copertine dei dischi, come fece la Sarah Records per tutta la durata della sua esistenza.
«È soltanto POLITICA: non come un traguardo lontano e irreale, ma come qualcosa di incapsulato nella vita di tutti i giorni. […] Puoi dire che sia idealismo, e quindi? È comunque un buon punto di partenza. Reggersi sulle proprie gambe (qualcosa di più difficile), CREARE, fare esattamente quello che sembra giusto… Tutto questo ha a che fare con… oh, diciamolo: soltanto cambiare il mondo», recitavano le note di copertina della compilation “Shadow Factory”.
Io continuo a chiedermelo: a che serve ascoltare ancora musica, anche la più dolce, se dentro ogni cosa che ti emoziona e ti fa innamorare non ti ricordi di cercare un lampo che renda il mondo un posto un po’ migliore, un po’ più decente di come l’hai trovato? L’indiepop non è bianco, middle-class e privilegiato, come qualcuno da fuori potrebbe credere. Nella sua storia troviamo parole come anticapitalismo, antirazzismo, femminismo più di frequente di quanto non ti aspetteresti. Puoi sempre rifugiarti nella malinconia dei tuoi dischi preferiti, e puoi consolarti con i suoi arcobaleni: la tendenza a fuggire dalla realtà è umana. Ma se poi non riporti là fuori qualcosa di tutto quello che hai imparato, se non l’afferri per colpire al cuore con il semplice shock un po’ di poesia, di un po’ di buon senso e un po’ di meraviglia, se alla fine non usi al meglio tutta questa dolcezza, non l’hai forse sprecata?